IMMUNOTERAPIA ONCOLOGICA. LE SCOTTE- SIENA

Quando mio marito mi aiutò ad aprire per la prima volta la pesante porta del reparto, avevo il cuore in altalena. Dopo una breve anticamera, ci accolse una giovane dottoressa con i capelli neri, in armonioso contrasto con gli occhi chiari, che, con fare professionale e competente, ci fece un quadro preciso della serietà della situazione, lasciandoci però degli incoraggianti spiragli di speranza, grazie ad un protocollo sperimentale a cui avrei potuto accedere dopo tre applicazioni di chemioterapia.
In seguito mi sarei dovuta sottoporre ad una nuova terapia immunologica, che tanta aspettativa aveva portato nei cuori dei pazienti, essendo l’ultimo ritrovato della continua, persistente, tenace ricerca di nuovi farmaci per combattere il cancro, portata avanti dal primario Prof. Michele Maio e dal suo staff. Ascoltato il programma che la dottoressa mi prospettava, capii che dovevo avvicinarmi a Siena con la residenza, quindi abbandonai baracca e burattini a Velletri, nel senso che lasciai figlia, nipotini e laboratorio teatrale, e mi trasferii definitivamente all’Argentario a respirare il mare e ascoltarne la sua immensità. Dopo essermi sottoposta alla prima chemioterapia, le sensazioni che provai m’ispirarono queste parole:

DOPO LA CHEMIO
(30 Maggio 2014)
Sonni cattivi
senza ristoro
Sonni duri
senza sollievo
Sogni cupi
senza
i colori
del sogno
catrame liscio
viscido e colloso
che
mi ricopre e risputa fuori
come
un cencio imbrattato
da
smaltire
nei
rifiuti speciali

Se la memoria non m’inganna, alla terza chemio, mi accadde, uscita dal lungo corridoio coperto che collega l’ingresso esterno dell’ospedale alla vetrata d’ingresso dei vari lotti, di trovarmi in pieno sole e, dimentica delle istruzioni ricevute in precedenza onde evitare l’esposizione diretta alla luce solare, sentii come se decine di fiammelle mi si accendessero in faccia e su tutto il corpo. Istupidita e incapace di reagire, restai immobile ripetendo: ”Brucia…brucia…”, finché mia figlia mi strattonò all’ombra, dove, come per incanto, tutte le fiammelle si spensero.

Potei, quindi iniziare la nuova immunoterapia con quattro infusioni di Ipilimumab, che fortunatamente, tollerai molto bene e dettero il primo attacco alla voglia di espansione del mio melanoma. Seguì un periodo d’interruzione della terapia in attesa di sapere, attraverso ripetuti controlli, come procedesse l’evoluzione della malattia. Al primo accenno di ripresa della sua voglia di espansione, gli opponemmo un altro farmaco: il Nivolumab, a cui mi sto tutt’ora sottoponendo: la prossima sarà la mia settantanovesima volta. Sia il primo, sia il secondo farmaco mi hanno, comunque, regalato sei anni di vita in più e alla mia età non son pochi! Vita dignitosa, autonoma e pressoché normale.

Il quindicinale appuntamento a Siena è diventato il punto fisso, intorno a cui ruota tutto il resto delle mie attività: ritrovo gli amici, dottori e infermieri, gli ambienti familiari, le voci conosciute, che subito si legano a un volto o a un nome. Quelli degli infermieri mi sembrano tutti belli e importanti: Angela, il nome dell’accoglienza e della pazienza, Marilena, il nome musicale e ondulato, come una brezza leggera, Marika, esotico e luminoso, come i bei capelli della giovane infermiera; Silvia, il nome di una poesia immortale; Elena, il nome della donna che fece scatenare una guerra feroce lunga dieci anni; Roberta, elegante e signorile, prossima sposa a Settembre; Giuseppina, rassicurante e materno; Vincenzo, garbato e premuroso; Tommaso dagli ondulati, lunghi capelli castani, che, dietro il suo bancone è sempre alle prese con cartelle cliniche, documenti, programmi. Né posso, né voglio, dimenticare i nomi di altri infermieri che non sono più in reparto, ma che ricordo molto bene: Massimo, che con il suo spiccato accento senese mi fece sentire subito a casa, e fu il primo a praticarmi la flebo d’Ipilimumab; Sergio, che una volta scambiai per Vincenzo, perché ambedue con capelli e barba scuri e perentoriamente mi rispose: ”Io sono Sergio e sono sempre stato Sergio!”, facendomi sprofondare sotto terra dalla vergogna di aver scambiato l’uno con l’altro; Hulk, soprannominato così per la sua stazza da gigante buono e Giusi che per prima mi aiutò a risolvere il problema della richiesta di trasporto alla Misericordia di Porto S. Stefano, preparandomi, di volta in volta, un foglio con le date di tutti gli appuntamenti previsti dal piano terapeutico, onde evitare ritardi nella richiesta o smarrimenti nella lista dei fax, come mi era accaduto precedentemente. E poi ci sono le signore chi io chiamo “le messaggere degli dei”, che accompagnano i pazienti nei vari reparti, conducendoli attraverso il dedalo di corridoi e di piani agli ambulatori dove sono attesi per ulteriori accertamenti e analisi, come la signora Maria, ormai in pensione, che ho già menzionato in un precedente racconto, a cui è seguita la signora Antonella, timida e gentile, e ora la signora Luana, che, con piglio deciso e passo da atleta, ci sospinge nei percorsi ospedalieri che sembrano non aver più alcun segreto per lei. Nomi di persone a cui ci affidiamo senza tema, certi che si prendano cura di noi con tutta la loro professionalità e umanità. Dopo tanti incontri ci diamo del tu e ci chiamiamo per nome: è veramente un ritrovarsi fra amici, che hanno un appuntamento fisso. Loro sanno di noi, non solo dei nostri problemi oncologici, ma anche del nostro modo di essere; però anche noi sappiamo un po’ della loro vita, dei figli, dei cani e dei loro luoghi di origine a cui, spesso, vorrebbero ritornare, come Fatima, tornata nella sua Ancona e che io chiamavo “manina di fata” per la leggerezza con cui introduceva l’ago in vena.

Anche i dottori, e le dottoresse, che ci seguono sono nostri amici, attenti e disponibili, ci supportano con la loro competenza e professionalità, aiutandoci a procedere nella terapia e programmano il nostro futuro, indicandoci i tempi della terapia e dei controlli.

Dopo la prima volta, tante altre volte ho riaperto la pesante porta del reparto, ma il cuore non era più in altalena, bensì ben saldo al suo posto, perché sentivo, e sento, di entrare nel posto giusto; sento di essere nel posto dove dovrei essere, dove mi stanno aspettando per aiutarmi a sconfiggere la mia grave malattia, dove continuano a studiare e ricercare nuovi strumenti affinché il cancro non sia più quel suono appuntito e farraginoso che come un macigno ti si deposita nel petto e risuona come una condanna. Ieri sono stata preparata per la terapia da un’infermiera che non conoscevo ancora e, quando le ho chiesto il nome per poterlo aggiungere alla lista di tutti gli altri infermieri, nella vastità del perimetro della sua “E”, iniziale di Erica, ho ripercorso i nostri undici anni di vita a Pianbosco nel Varesotto, quando all’inizio dell’autunno raccoglievo fasci di erica che nascevano spontanei nelle radure e ne abbellivo la casa, distribuendoli nei vasi delle varie stanze e dove le mie figlie crebbero libere in mezzo alla natura e ai suoi suoni, colori e profumi. Due posti incantati hanno dato gioia alla mia vita: Pianbosco e l’Argentario: luoghi d’inenarrabile bellezza dove le stagioni sono ancora tali, scandiscono il passare del tempo e caratterizzano i vari periodi dell’anno.

Durante la pandemia, il reparto è diventato ancora più rassicurante. I pazienti sono stati convocati per appuntamento in modo che gli orari non si sovrapponessero; i parenti sono invitati ad aspettare fuori per non affollare la sala d’attesa e gli infermieri trasmettono più che mai sicurezza e serenità, nonostante siano costretti a passare le loro giornate dentro l’ospedale, uno dei luoghi più pericolosi, in caso di pandemia. Per non parlare dell’Associazione “Aquattromani”, fondata da un ex paziente, ormai del tutto guarito, e portata avanti con passione e impegno da medici e pazienti per la tutela e la cura di malati e parenti, quando necessitino di essere aiutati, logisticamente e anche economicamente, dovendo soggiornare per esami e terapie in una città del tutto sconosciuta.

L’immunoterapia oncologica dell’ospedale “Le Scotte” di Siena è così un rifugio dalle paure e un riparo dalle ansie, grazie all’atmosfera che dottori e infermieri creano con le loro professionalità, offrendo ai pazienti smarriti dentro i meandri dei tumori supporto specifico per le loro patologie, ma anche psicologico e dietetico con professionisti che vanno al di là della propria funzione e intessono con i pazienti rapporti di cordialità, sostegno e umanità.

È a loro, e al primario del reparto prof. Michele Maio, insigne scienziato che, dopo aver applicato l’immunoterapia per la cura del melanoma, continua lo studio e la ricerca per poter allargare il raggio di azione di questa terapia anche ad altre severe forme di tumore, che va da parte mia, e di tutti noi pazienti, un sentito: ”Grazie! Grazie di cuore!!!”

FINE
Alba Raggiaschi