MARTEDÌ 28 FEBBRAIO 2017

“Che dici, Samanta, domani mi trucco?” chiedo a mia figlia, incerta su come propormi per affrontare la biopsia epatica di cui non so quasi niente.
“Fai come ti senti.”
“Io vorrei truccarmi, non andare lì pallida come un morto, però se poi ci scappa qualche lacrima, mi sbaffo tutta!” penso al liquido delle anestesie locali, per esempio quello dei denti, che a volte è così pungente e velenoso che le lacrime escono involontarie.
“Devi fare quello che ti senti.” ripete determinata.
Bene, mi sento di truccarmi, non solo, ma l’indomani mi metto addosso colori pastello, rosati, e vado decisa all’ennesima prova.

Naturalmente arriviamo con grande anticipo, tanto che Samanta fa in tempo a prendere un cappuccino mentre io annuso voluttuosamente i caldi, avvolgenti aromi dei caffelatte mattutini, pur tenendomi ligia all’ordine di digiuno; poi, comprato l’immancabile “Il fatto quotidiano”, verso le otto entro nel reparto, faccio vedere che sono già arrivata ed aspetto che l’iter si compia.
Vengo chiamata quasi subito per effettuare le analisi e lasciare l’accesso venoso per qualunque evenienza possa capitare durante la biopsia. Dato che la mia referente è assente, m’inviano, quindi, da un’altra Dottoressa, affinché mi consegni la cartella sanitaria e mi confermi che mi manda a fare la biopsia epatica.
Approfitto di questo breve approccio per chiederle quello che, forse per un rigurgito della mia atavica, paralizzante timidezza o per un’essenzialità senza repliche con cui me lo aveva prospettato, non avevo chiesto a suo tempo alla mia Dottoressa: “Mi scusi, ma perché faccio la biopsia?…Tanto si sa che ho il melanoma?!?”
Mi guarda stupita: “Perché la sua Dottoressa non gliel’ha detto? Credevo gliel’avesse detto!”
“Veramente no…ma neanch’io gliel’ho chiesto….ha detto solo che dovevo farla in contemporanea con l’ecografia!!!”
“Serve per individuare il tipo di tumore di questa nuova lesione epatica ed utilizzare lo strumento farmacologico più idoneo.”
Non approfondisco oltre, tanto entrerei in un campo troppo tecnico ed ignoto: “È doloroso?”
“No, assolutamente indolore!” mi risponde assertiva “Le fanno l’anestesia locale e poi entrano con un ago sottilissimo del tutto indolore! Stia tranquilla!”
Bene, sto tranquilla.
Con la mia voluminosa cartella sanitaria vengo affidata alla “messaggera degli Dei”, come la chiamo io, una signora gentile ed infaticabile che accompagna, negli oscuri dedali dei corridoi dell’ospedale, i pazienti ai vari altri reparti per accertamenti, visite e controlli. Ormai ci conosciamo, l’ho presentata anche alle mie figlie come “la messaggera degli Dei” e credo che la cosa le piaccia, così durante il percorso conversiamo, come sempre.
“Dove stiamo andando?” le chiedo poco prima di arrivare.
“All’interventistica.”
Non so perché il nome del reparto mi suona minaccioso. Quando arriviamo, però, riconosco il Reparto di Ecografia dove sono già stata un paio di volte.
“Quando torno a prenderla, però, non s’impressioni,” mi annuncia prima di lasciarmi “arriverò con il letto.”
“Ah, non sarò più così arzilla come quando son venuta!” la butto sullo scherzo
“No, no,” mi rassicura “sarà sempre arzilla, solo che dovrà stare sdraiata per qualche ora, con la borsa del ghiaccio.”
Dà all’accettazione il numero per richiamarla e mi lascia alla mia biopsia.
Il Dottore dell’Interventistica ha una faccia che mi risulterebbe simpatica, volto da David di Michelangelo con capigliatura riccia, ispida barba brizzolata ed un’espressione da hippy intellettuale, ma è piuttosto serioso e molto concentrato.
Quando gli chiedo conferma: “È indolore, vero?” non mi dà grande rassicurazione.
“L’anestesia locale è la cosa più dolorosa, poi la biopsia può dare qualche fastidio a livello epatico e lasciare una dolenzia in loco per qualche tempo, ma niente di più. D’altronde è un intervento a ‘cielo chiuso’”. Mi colpisce questa definizione che oscura e serra il respiro del cielo.
In silenzio, guardo le sue manovre di preparazione all’intervento, la definizione dei parametri e degli schemi, quel cielo schermato di nero in cui ha tracciato con due linee tratteggiate il percorso dell’ago bioptico. Potrei seguire tutto il procedimento sullo schermo, ma so che m’impressionerei, preferisco farmi “scannare” senza vederlo.
Finito di mettere a punto lo strumento, aiutato da un giovane infermiere, il Dottore mi fa girare su di fianco con il braccio destro sopra la testa:
“Adesso comincio ad iniettarle l’anestesia.” annuncia
Solito liquido velenoso e malefico che irradia dolore.
“Ha ancora sensibilità qui?”
“Sì.”Altra maledetta pozione, poi evidentemente la zona superficialmente diventa insensibile.
Io comunque continuo a sentire male, finché uno schiocco, come lo scatto di una molla mi fa sobbalzare. Il Dottore mastica fra i denti un: “Eh, no!”. Io stringo i denti e sprofondo nel dolore. Altro schiocco che a me sembra più profondo e più forte del primo. Il dolore è lancinante.
“È finito?” ansimo.
“Sì, è finito.”

Mi posso rimettere supina e mentre il flusso del dolore dilaga dentro di me, sento tirarsi gli angoli esterni delle palpebre e gli occhi sbarrarsi da soli fissi al soffitto, il cervello ritirarsi in una nicchia verso l’alto, separato da una fascia di vuoto a strisce grigio scuro e grigio chiarissimo, che lo separano dall’articolazione dell’espressività, fatta di suoni e parole, che non ricevendo più gli impulsi del comandante in capo, rintanato nella sua cupola in cima al cranio, degradano in balbettii inconsulti o in gemiti di sofferenza. Respiro a fatica, il respiro si ferma a metà petto, e mi bagno di sudore.
Il Dottore continua a chiedermi se il dolore mi sta passando. Ai miei dinieghi continua ad armeggiarmi intorno, a controllarmi ecograficamente, ad iniettarmi in vena, con l’aiuto dell’infermiere, farmaci antidolorifici, poi, sentendosi impotente a gestire la situazione, si attacca al telefono e chiama l’Equipe di Rianimazione. Colgo una frase: “…la vedo brutta…”
In tutto questo marasma di dolore, la cosa più stupefacente che ricordo è l’impulso assoluto che sentivo di dover prendere e trattenere la mano del Dottore. Il fatto che nelle varie operazioni di soccorso le sue mani sfiorassero la mia, già era utile.

Preda e carnefice di me stessa, ero assolutamente sola nella pianura melmosa del dolore e senza un appiglio (il calore di una mano che mi trattenesse), preda e carnefice sarebbero affondati insieme nel fango gelido e nero di quella palude, sotto un cielo chiuso alla luce della vita.
Arriva l’Equipe di Rianimazione, guidata da una valente Dottoressa che per prima cosa, mentre dispone del mio corpo come di un campo su cui intraprendere una battaglia senza quartiere, ma vittoriosa, per prima cosa mi prende la mano, me la stringe e mi parla. Mi parla.
“Le prometto che io le faccio passare il dolore. Mi creda, glielo prometto. Io ora le faccio passare il dolore.” continua a ripetere per rassicurarmi.
“Mi sento morire…” in qualche modo riesco ad articolare queste parole.
“No. Io adesso le faccio passare il dolore.” mi promette ancora la Dottoressa.
Intanto, angosciata, penso a come faranno a dire a mia figlia Samanta, ignara, che sua madre sta morendo.
Come in un episodio di ER, ho sette, otto persone che si prodigano per non lasciare che preda e carnefice si annientino reciprocamente, ma si riconoscano come parti dello stesso organismo e collaborino per ritrovare l’equilibrio e l’armonia della sopravvivenza, meta, in quel momento, ancora lontana.
Fra il mordermi le labbra per resistere al dolore, i gemiti, i mugolii inarticolati, ecco che mi affiora alle labbra il balbettio più antico: “…mam…ma…mam…ma…mamma…”. L’autostrada a quattro corsie del dolore adesso va dal fegato dritta, dritta e ruggente fin sotto la clavicola: mi danno la morfina che mi procura la nausea, allora aggiungono il Plasil. Intanto hanno bloccato la sudorazione e riesco nuovamente ad articolare i suoni. Arriva una barella attrezzata per la rianimazione.
“Riesce, signora, a spostarsi sulla barella?”

Obbediente come sempre, supportata dai miei “aiutanti di campo”, guidati dalla Dottoressa, eccezionale “comandante in capo”, scivolo sulla barella e vengo velocemente trasferita alla Shock Room del Pronto Soccorso, dove un altro esercito di soccorritori mi sta aspettando e mi si fa intorno.
In lontananza, stagliata nel riquadro della porta, vedo Samanta che, stringendosi addosso giacconi e borse, guarda verso di me.
“È arrivata sua figlia…la Dottoressa è andata a parlarle.” mi avvertono.
“Vuol vedere sua figlia?… È qui.” mi domanda la Dottoressa, nuovamente al mio capezzale.
“…ma farmi vedere così…in queste condizioni…” mi schermisco.
“Solo cinque minuti, vedrà le farà bene parlare con sua figlia…” insiste la Dottoressa.
Annuisco, chiudendo le palpebre.
Entra Samanta con il suo carico d’indumenti, ancora confusa sulla sequenza ed il perché degli accadimenti. L’avevo lasciata con armi e bagagli nella sala s’aspetto del reparto per andare a fare un’innocua biopsia epatica e mi ritrova nella Shock Room del Pronto Soccorso, circondata dall’equipe della rianimazione: è spaventata. I grandi occhi smarriti.
Sotto morfina, con l’ossigeno, monitorata nei parametri vitali, vengo condotta in una saletta del pronto soccorso, nell’attesa che il dolore rallenti la sua forsennata corsa sull’autostrada a quattro corsie dritta, dritta Fegato-Clavicola. Passeranno ancora molte ore prima che raggiunga il Nirvana della droga.
Samanta mi tutelerà, richiamando le “smemoratezze” del Pronto Soccorso sul perdurare dello spasimo e l’attenzione sul prolungarsi delle dosi di morfina, come da loro stessi richiesto.
Comunque arriveranno le quattro prima che una quantità di morfina data a go go cancelli il catrame della sofferenza e mi spedisca nelle beatitudini dell’estasi.A sera mi trasferiscono in una camera della Medicina d’Urgenza, dove mi tratterranno per due giorni.
Riemersa dal pozzo cupo del dolore, intrisa di morfina fino alla radice dei capelli, il letto di ospedale mi sembra un’alcova imperiale, il tepore delle coltri mi dà il benessere di trovarmi nel Giardino dell’Eden, prima che Eva mangiasse la mela, il sonno è sereno e appagante.
Emozionata e gioiosa continuo a pensare che l’indomani mattina dovrò mandare un lungo Whatsapp a Carla, la mia amica regista, per raccontarle questa mia esperienza: sono indecisa se raccontarglielo come copione di un futuro testo teatrale o, semplicemente, come racconto. Mi balocco in queste mielose e beate fantasie, contenta di essere ancora viva e senza dolore.
Al mattino l’effetto d’onnipotenza della morfina comincia a scemare, le fragilità riemergono, la stanchezza per la prova patita è immensa e la debolezza anche. Non scriverò nessun testo teatrale né racconto, aspetterò fino a sera che mi diano qualcosa da mangiare perché prima devo fare un’altra un’ecografia di controllo che mi faranno solo alle sette di sera, andrò in ipoglicemia e mi sentirò devastata e d’acciaio, come sempre.

Nei giorni successivi parlando con il mio medico di famiglia, gli confesserò quanto il dolore patito e la sensazione di stare per morire, mi siano rimasti dentro e mi pesino. Mi darà la spiegazione scientifica dettagliata di quello che è successo, aggiungendo che, comunque, è stata una casualità fine a se stessa, un episodio chiuso che non avrà conseguenze e a cui non devo più pensare. “Se lo dimentichi!” è il suo imperativo.
Anche il Dottore della biopsia, che vorrà ricontrollarmi personalmente una settimana dopo per accertarsi che la zona del fegato che ha sanguinato sia completamente risanata, mi assicurerà che è la prima volta che gli è successa un’esperienza del genere. “Sono contenta per tutti gli altri a cui va bene…si vede che il caso eccezionale doveva toccare a me!” gli sorrido. Ci stringiamo la mano con cordialità.
Aggiungo, quindi, questa esperienza al pesante bagaglio delle tante altre che nell’arco di una vita ho subito od affrontato, deposito in questo racconto la memoria di ciò che ho vissuto, del dolore devastante e della paura del buio melmoso che quel “cielo chiuso” ha all’improvviso serrato davanti ai miei occhi sbarrati, consegno alle profondità del mare dell’Argentario i tormenti patiti ed alzando gli occhi vedo che il cielo è immenso sopra di me e luccicante d’azzurro.

Alba Raggiaschi