Chirurgia plastica

In realtà ero andata dal dermatologo per un altro motivo.

Nonostante l’uso dei guanti di gomma per lavori domestici, come ogni anno d’inverno, avevo la parte interna della pelle delle dita che si crettava e si apriva creando delle fessure dolorose e profonde che impiegavano tempo a richiudersi, ma poi, visto che ero lì, avevo anche fatto nuovamente controllare la famosa, odiosa macchiolina violacea apparsa dopo l’asportazione della cistifellea che mi portavo addosso da diciotto anni, ma che in due precedenti visite specialistiche mi avevano diagnosticato non essere pericolosa e che invece mi marchiò come una condanna.

“È una condanna?” è quello che chiesi al dermatologo dopo la diagnosi di melanoma.

“Nooo!!!” fu la sua risposta netta e assertiva. Lo guardai senza credergli.

M’indirizzò al Reparto di Chirurgia Plastica perché prenotassi un appuntamento per l’asportazione del tessuto sospetto e per le relative analisi necessarie prima dell’intervento. Cominciò così la mia peregrinazione per i meandri di quella struttura che mi spaventava per la sua vastità.

Dopo il primo intervento in Aprile, Martedì 14 Maggio 2013 era previsto un secondo intervento per la radicalizzazione del melanoma, visto che l’esame istologico aveva fugato ogni “sospetto” ed aveva confermato il tumore, senza più il dubbio speranzoso del “fifty fifty”.

“È necessario asportare altro tessuto…allargare la zona d’intervento. Pulire.”

È un altro dottore che mi dà la ferale notizia, non più la bionda luminosa e solare della prima volta; questo nuovo dottore ha una certa età ed una faccia asciutta ma simpatica, con un guizzo d’ironia nello sguardo. Aggiunge, leggendomi la domanda negli occhi: “Ma non potevate farlo subito, lei si chiederà?”

“Beh, in effetti è quello che stavo pensando…”

“Eh, no! Non sarebbe stato giusto farle uno squarcio nella coscia senza avere la certezza che si trattasse di melanoma!”

“Ah, ecco!” penso “…altro che odiata macchiolina violacea di cui ero stata ben lieta di liberarmi…qui mi faranno un cratere!”

“Però non intaccheremo il muscolo!”

“Ah beh, allora sto tranquilla!…” ghigno amaramente dentro di me.

Dopo il primo intervento, mi ero rifugiata nella casa del Pozzarello all’Argentario che, tutto sommato, non distava molto più di Velletri, dove normalmente abitavo, dall’Istituto a cui mi ero affidata per affrontare il mio melanoma. Erano giornate di primavera e i colori del mare e della laguna di Orbetello struggevano il cuore.

Il venerdì sera prima del martedì programmato per l’operazione, il malessere e la tossetta dei giorni precedenti, si concretizzano in febbre alta a più di trentanove e abbondante sputo di catarri, praticamente una bella polmonite in atto.

Mi sentivo da ricovero e se Alfredo fosse stato me, mi avrebbe portato al Pronto Soccorso e l’operazione sarebbe saltata, ma lui, teutonico e intrepido, ha confidato negli antibiotici e negli antipiretici e non ha pensato proprio al ricovero. Così l’operazione non è stata rimandata nemmeno quando, seguendo il suggerimento del nostro medico curante, per correttezza ho segnalato telefonicamente all’Istituto che, presentandomi, mi sarei portata dietro una bella carrettata di batteri, dato che la radiografia ai polmoni effettuata il lunedì mattina, aveva confermato una polmonite in atto.

“Quindi non vuole più operarsi?” mi aveva risposto asciutta l’infermiera capo.

“No, io voglio operarmi…solo è per il contagio…per i batteri…”

Ho cozzato contro la sua stringata essenzialità: “Per noi non c’è problema!”

Sentendomi in colpa come una scolaretta, avevo confermato: “Va bene…allora domani vengo:”

Ormai senza più febbre, docile ed ubbidiente mi dispongo sul lettino operatorio, accudita da un’infermiera gentile e premurosa che mi prepara la coscia per il nuovo intervento, con modi garbati e rispettosi.

La prima volta ero stata operata da una dottoressa che a stento mi aveva salutato entrando. Astenica, annoiata e distaccata, m’infligge l’anestesia locale e mi opera in silenzio, senza accorgersi di me, poi si allontana mentre le infermiere finiscono d’incerottare la ferita.

Questa volta, invece, si presenta un’altra dottoressa e si rivolgerà a me trattandomi da persona: “Che cosa dobbiamo fare a questa bella signora?”

Mentre le infermiere la informano sul mio caso, prende le misure, mi disegna sulla pelle il perimetro della zona da asportare e comincia a lavorare “in letizia”, facendomi sentire parte del suo lavoro e del suo impegno, non un pezzo di carne su cui svogliatamente svolgere il proprio compito.

Quando ha finito, le stringo la mano e la ringrazio di cuore.

Una volta finita l’operazione, sempre in anestesia locale, mi appoggiano su una barella fuori della stanza operatoria affinché mi “riabbia” prima di tornarmene a casa. Provata dal nuovo intervento, me ne sto ad occhi chiusi, lontana da tutto ciò che mi circonda e sento vicino a me la presenza dei miei morti che mi consolano e mi assistono. Sento il conforto della loro presenza, della loro affettuosa protezione.

Infine, mi scrollo di dosso questa nicchia protettiva e, dura come l’acciaio, riappaio in sala d’attesa dove Alfredo mi accoglie con sollievo e preoccupazione.

Il “melanoma sottile a lenta evoluzione” è stato “sistemato per le feste” se ne riparlerà fra sei, otto mesi con un‘ecografia addominale di controllo.

Questa la rosea prognosi del dermatologo.

Erano passati solo tre mesi e mezzo dalla seconda operazione e dalla rosea prognosi del dermatologo, quando mi accorsi di un piccolo nodulo che si stava formando al bordo della cicatrice.

Confortata dalle ottimistiche prospettive con cui mi avevano liquidato all’Istituto, pensai potesse trattarsi di una reazione abnorme della cicatrizzazione, comunque decisi di tornare dal dermatologo per farlo vedere.

“Eh, questo se lo tiene!…. non ha niente a che fare con il melanoma!” mi rassicura distrattamente il dottore “comunque facciamo un’ecografia di controllo. Le prenderò un appuntamento.”

Intanto il mio nodulo continuava a crescere e continuò a crescere finché la nuova ecografia confermò : “Melanoma con metastasi in transito”, una dicitura che non riuscivo a capire (ma dove transitava mai quella metastasi?!?…era tanto palese che era lì!!!!…capisco ora probabilmente che il sostantivo “metastasi” era usato al plurale e si riferiva alla proliferazione di più metastasi che stavano “transitando” verso altre mete) ma che, in parole semplici, significava che il melanoma si stava impossessando del mio corpo.

“Ammappate che sfortuna” sghignazzò il dermatologo, leggendo il referto e si arrabbiò con me perché “un melenoma sottile a lenta evoluzione” non avrebbe dovuto avere un simile sviluppo. Poi mi spedì alla Chirurgia Plastica senza più rivolgermi la parola.

Lo consultai ancora una volta telefonicamente per evidenziargli i discordanti pareri della Chirurgia Plastica e degli oncologi sul fatto di togliermi o meno un linfonodo sentinella dall’inguine ed ebbi una risposta vacua, da pesce in barile, dopodiché, fortunatamente la mia storia prese un altro indirizzo e quel dermatologo l’ho convintamente rinnegato.

Al momento, però, dovetti sottopormi alla terza operazione alla coscia e questa volta fu molto più pesante e dolorosa.

E siamo al terzo chirurgo.

Questa volta sarò operata dal dottore che mi dette la notizia del secondo intervento, quello dallo sguardo ironico. M’informano che questa volta arriveranno fino al muscolo senza però tagliarlo e che comunque avrò bisogno di una sedazione oltre all’anestesia locale, per cui avrò un ricovero day hospital, sarò precedentemente visitata dall’anestesista, mi assegneranno una stanza e un letto dove riposare prima e dopo l’operazione.

Il ricordo dell’intervento è squallido. Mi portano in una saletta operatoria con una postazione a vetri dove l’anestesista, che già mi aveva visitato in mattinata, sta parlando dei fatti propri con un altro in camice bianco, poi si occupa svogliatamente di me mentre il chirurgo altrettanto disinteressatamente mi opera. Anche la fasciatura sarà molto più ingombrante e spessa rispetto ai due precedenti interventi.

In quel momento con il Laboratorio Teatrale Centostorie eravamo alle prove finali della replica di “FŒURA”, una nostra commedia, scritta da Carla, regista teatrale e da me, e già rappresentata a Giugno. Per fortuna l’intervento era stato fissato per la settimana precedente allo spettacolo, ma ciò non toglie che la sera del day hospital, mezza zoppicante e un po’ dolorante, non mi facessi portare da Alfredo alle prove, accolta come sempre dall’affetto e dalla considerazione di tutti i miei compagni di laboratorio.

Purtroppo la ferita questa volta mi dà dei problemi, le medicazioni, durante la settimana successiva all’intervento, si trasformano in torture perché l’aspetto della cicatrice, dei punti e del gonfiore intorno non convincono le infermiere preposte al cambio della medicazione le quali dopo aver bucato, spremuto e strizzato chiamano in aiuto il chirurgo di turno che pensa bene di riaprire, far sgorgare, tormentare finché, impietosite le infermiere stesse intercedono per me e mi rimandano ad una nuova medicazione due giorni dopo.

Due giorni dopo ritrovo proprio il chirurgo che mi ha operato, il quale si accinge a ripetere gli stessi interventi al motto: “….l’occhio del padrone!!!…” nonostante io lo informi che tutti quei maneggi su la mia povera coscia siano già stati fatti due giorni prima da un suo collega.

Risultato mi rinnovano sempre gli stessi cerottoni gonfi ed ingombranti.

Ormai ero a ridosso dello spettacolo e temevo che quello spessore sulla coscia si potesse vedere come una strana protuberanza sotto la gonnellina da scena. Alla medicazione del venerdì precedente il sabato dello spettacolo, chiedo alle infermiere se mi possono ridurre il volume delle garze; un po’ a bocca storta lo riducono di poco: “Meglio di così non possiamo fare!…” In effetti non è una gran riduzione, ma devo accontentarmi.

Entrerò in scena, rigida, composta, cercando di non zoppicare, a piccoli passi lenti con in braccio Cloe, la mia chihuahua che ha una parte nella commedia e che poi, sedendomi, mi aiuterà a coprire il ponfo che rigonfia la gonna sulla coscia sinistra.

Questo nel primo tempo, nel secondo la gonna sarà più ampia e la mia posizione più defilata per cui i miei stessi compagni mi diranno che nessuno, nemmeno loro si erano accorti della zoppia e della medicazione. Mi godo il successo della nostra commedia e per due giorni dimentico le ambasce.

Finito lo stordimento del successo, le ambasce subito si ripresentano e per la prima volta vengo spedita ad una visita oncologica.

Finora ero stata sballottata dal dermatologo alla chirurgia plastica all’ecografia, ma ora, dopo la diagnosi di “metastasi in transito”, si comincia a fare sul serio.

È già una conquista individuare il colore del cartellino della stanza dove vengono effettuate le prime visite oncologiche, poi porre attenzione appunto al colore ed al numero della chiamata mentre imbambolata, disadattata, rassegnata ed un po’ stupita cerchi una sedia libera in mezzo a tanti altri pazienti ammalati come te ed a tanti, tanti altri che ti passano davanti agli occhi in una peregrinazione continua per quei corridoi circolari nell’intento di raggiungere una meta salvifica che ci allontani per sempre da quei gironi infernali di corpi sofferenti.

L’oncologa mi prescrive una Tac total body da fare a “I Cavalieri di Malta” convenzionato con la struttura perché la struttura in sé non avrebbe posto se non dopo mesi di attesa.

Il ricordo di quei giorni, delle pratiche di contorno per fare quanto richiesto, dei tempi telefonici necessari per le prenotazioni, dei luoghi da raggiungere, mi creano sgomento perché, visti con gli occhi del presente, realizzo che avevo la morte addosso ma nessuno mi stava avvisando e tutto sembrava un casuale gioco ad incastro.

Ai “Cavalieri di Malta” altre file, altri “condannati” in ordinata attesa di conoscere il proprio oracolo.

Quando tocca a me, la routine ripetitiva si altera per un po’: la dottoressa, impressionata dalla mia consistente anamnesi già precedente il melanoma, chiede tutta la documentazione da visionare prima di procedere quasi fosse colpita dalla completezza dell’esame e blocca temporaneamente la “catena di montaggio”, mentre l’infermiera preposta ad infilarmi in vena l’ago per iniettare il liquido di contrasto non riesce, forse a causa del massacro perpetrato sulle mie vene durante i ripetuti episodi di pancreatite, a trovarne una per infilarvi la cannula necessaria, quindi dopo vari tentativi e rimestii, va a chiamare un dottore “anziano” perché provveda con la sua esperienza a catturare una vena ed infilzarla senza pietà. Al quel punto sono io che comincio ad averne abbastanza e non mi sento affatto sicura che l’“anziano” risolverà il problema, visto le pregresse esperienze di dottori che nel fare un’endovenosa, per esempio a mia figlia Soleda, sono stati capaci di iniettarle tutto il farmaco fuori vena, lasciandole il braccio edematoso e gonfio per più di un mese.

Questa volta la fortuna mi assiste e l’“anziano” (medico ormai in pensione ma presente nella struttura privata) in qualche modo riesce ad infilare la cannula ed anche ad attaccare discorso con me, discorso che protrarrà poi, quando mi raggiungerà nel salottino dove mi ha indicato di attenderlo per riconsegnarmi tutta la documentazione che la dottoressa responsabile della Tac aveva voluto attentamente visionare.

Dopo qualche giorno tornerò ai “Cavalieri di Malta” a ritirare il referto e lo porterò all’attenzione dell’oncologo: infatti non trovo più la dottoressa della prima visita ma al suo posto incontro un altro dottore, giovane, con uno strano cognome straniero.

“Perché non le hanno fatto il linfonodo sentinella?”

“Non lo so.”

“Dovrebbe chiedere alla Chirurgia Plastica perché non le hanno prescritto questo accertamento. Al momento la Tac non rivela anomalie ma io mi sentirei più tranquillo se fosse fatto anche questo accertamento. Contatti la dottoressa che le ha visionato l’ultima ecografia e le faccia presente questa mia richiesta”

Come sempre quando mi si prospetta qualcosa d’inatteso, oltre alla botta allo stomaco per raccogliere le forze per affrontarlo mentre vorrei solo fuggire e nascondermi, in una frazione di secondo mi scivola davanti agli occhi la pellicola del film che mi aspetta: chiedere appuntamento con “quella” dottoressa, l’ennesima delle tante, raccontarle la visita oncologica, sentire la sua risposta, trasferirla all’oncologo e prendere una decisione.

A quel punto, dopo le numerose peregrinazioni all’Istituto, avevo più conoscenza dell’ambiente, dei vari ascensori che a secondo della lettera che li identificava ti portavano da una parte o dall’altra, dei vari piani da raggiungere, dei giorni di presenza dei medici, ma principalmente avevo più determinazione e quindi, soffocata la timidezza sempre in agguato nel fondo dello stomaco, decido di agire al momento.

È un martedì, ricordo che “quella” dottoressa mi aveva detto di essere all’Istituto il martedì ed il giovedì, mollo Alfredo, che fa fatica a camminare, seduto fuori dell’ambulatorio di oncologia, mi dirigo a passi da lupo verso la lettera giusta dell’ascensore giusto verso il piano giusto nella segreteria giusta del Day Hospital.

La porta della stanza è aperta e vedo dentro, insieme alla solita segretaria dai luminosi occhi azzurri e dai modi riguardosi, sensibili e apparentemente partecipi (ha a che fare tutti giorni con persone che si presentano in compagnia della morte), la dottoressa “ delle mie brame” che sta trafficando con dei classificatori.

Mi fermo sulla porta in educata attesa e la dottoressa vedendomi si premura di dirmi: “Finisco il lavoro…ancora un momento poi potrà entrare.”

“Io veramente cercavo proprio lei!….”

“Ma oggi non è il mio giorno di ricevimento….lei ha l’appuntamento?”

“No, ma….”

“Allora deve andare giù in Chirurgia Plastica…io ho da fare, sono impegnata….”

“Mi scusi dottoressa, ma ho bisogno di una sua risposta. Il dott… dell’oncologia vorrebbe sapere se lei è d’accordo di asportarmi il linfonodo sentinella.” prorompo tutto d’un fiato.

Siamo in mezzo al corridoio, con fastidio mi fa entrare nel suo ufficio dove ritrovo la dottoressa astenica del primo intervento che come sempre appare lì per caso, annoiata e disinteressata a tutto.

La bella dottoressa dai folti e voluminosi capelli neri mi fa sedere alla scrivania di fronte a lei ed io, continuando a profondermi in scuse, inghiottendo i rigurgiti di timidezza che mi strozzano la gola e cercando di essere il più veloce possibile, le pongo sotto gli occhi quanto richiesto dall’oncologo e quanto scritto da lei quando mi ha visitato dopo l’ultima ecografia, quella delle “metastasi in transito”.

E lei conferma per scritto il suo diniego all’asportazione del linfonodo sentinella.

Concluso l’incontro forzato, ringrazio, saluto sotto lo sguardo assente dell’altra dottoressa e mi precipito all’ambulatori oncologico con la speranza di poter subito comunicare il parere richiesto all’oncologo. Non se ne parla proprio: il dottore è in visita fin dopo le due e potrò rintracciarlo solo telefonicamente. Così avverrà e telefonicamente mi dirà la prima frase veramente allarmistica:

“Allora mi raccomando, signora, entro Febbraio faccia nuovamente “ecografia addome completo e inguinale e eco cute e tessuto sottocutaneo”, mi raccomando, non se lo dimentichi….è importante!!!”

Siamo a Novembre del 2013, cerco di prenotare all’Istituto, dove sono in terapia e m’informano che il primo appuntamento utile sarebbe per Agosto dell’anno successivo, perciò non resta che sperare di riuscire ad avere un appuntamento per Febbraio ai soliti “Cavalieri di Malta” convenzionato con l’Istituto oppure organizzarsi privatamente.

Riuscirò a prenotare ai Cavalieri per il 5 Febbraio del 2014.

2013…E POI! prosegue con La speranza