La speranza

Nei primi mesi del ’14 la mia vita era data per persa, poi il Lilliput, come lo chiamo io (Ipilimumab il suo nome scientifico) mi ha regalato ancora del tempo, ma a Novembre del 2013 ero smarrita in tutti i sensi negli androni circolari dell’Istituto.

Con questo smarrimento in corso, mente intorpidita dall’assenza di progetti ed anche dall’assenza di ragionamenti, affidata alla nebbiosa casualità degli eventi, a Dicembre tornai all’Argentario e andai dal nostro medico curante per aggiornarlo sulla malattia e per farmi prescrivere delle ricette.

Quando per la prima volta gli avevo portato il referto attestante il melanoma, mentre io sfoggiavo una certa tranquillità il dottore era stato di poche parole, ma il suo sguardo era cupo e tale rimase ogni volta che tornavo da lui raccontandogli gli ulteriori svolgimenti della mia storia. Era avaro di commenti, anche se non mi aveva taciuto la gravità della malattia, ed ascoltava la mia verbosità con buia perplessità.

Così stava andando anche quell’incontro di Dicembre quando, poco prima del commiato, mi disse casualmente una frase che per me squarciò un sipario: “Basta che lei si senta seguita!”.

Rimasi interdetta, penetrata da quella semplice frase e di colpo mi resi conto che no, non mi sentivo seguita, ma sballottata. Sballottate da un chirurgo all’altro, da un oncologo all’altro, da un laboratorio all’altro.

“No, non mi sento seguita….proprio per niente, proprio per niente. No, io non mi sento seguita.” esplosi.

Di getto traboccò da me tutto lo smarrimento che avevo dentro, ma di cui non mi rendevo conto. Nessuno mi seguiva veramente, non c’era rapporto personale, umano con nessuno: m’indirizzavano, m’inviavamo ma nessuno sapeva chi fossi, nessuno seguiva il mio caso personalmente, nessuno mi spiegava la mia reale situazione, nessuno allacciava i fili della mia storia e ne componeva la trama.

Tante volte al telefono mia figlia Samanta mi domandava perché non mi facessero nessuna chemioterapia o altro trattamento: “Possibile che non ti facciano niente…ti operano e basta…nessuna cura, nessuna chemio, niente…”

Rispondevo con calma: “Ma l’Istituto di Roma è come l’Istituto Tumori a Milano…meglio di così…sapranno quello che devono fare, sono in una “bote de fero”!….” celiavo in romanesco, senza accorgermi che, invece, ero allo sbaraglio.

“Se vuole, a Grosseto abbiamo il CORD, un polo oncologico collegato con tutte le varie discipline, che segue i pazienti da vicino.” mi propose il dottore con modestia, quasi con reticenza forse paragonando l’ospedale di un piccolo capoluogo di provincia al colosso del grande Istituto della grande capitale. “C’è un dermatologo molto valido, che riceve anche a Orbetello alla Lilt, ed è una persona molto valida anche dal punto di vista umano. Può andare a nome mio.”

“Va bene, Dottore, lo farò. Telefonerò per prendere appuntamento. Conosco la Lilt per le visite dal ginecologo, che mi riceve lì.”

La mattina dopo chiamai la Lega Italiana Lotta ai Tumori ed il 18 Dicembre 2013 conobbi il dott. S.

“Perché non le hanno tolto il linfonodo sentinella?”

“Non lo so, dottore. L’oncologo avrebbe voluto ma la dottoressa della chirurgia plastica gli ha scritto che “in fede ed in coscienza” non lo riteneva necessario, così è stato rimandato tutto alle ecografie che farò a Febbraio.”

Il dott. S. mi guarda perplesso. Ha un aspetto rude da “gente rustica”, come babbo, nato a Grosseto, definiva affettuosamente i suoi grossetani (“….hanno anche la targa GR che li identifica…” diceva sogghignando), ma lo sguardo è bonario in mezzo alla selvaticità della corta barba scura, ispida e dei capelli mossi, altrettanto scuri ma intramezzati da accenni di canizie.

“Ripetiamo subito un’ecografia e vediamo che cosa ci dice. Se conferma quanto finora refertato bene, altrimenti ricorriamo alle nuove terapie che oggi abbiamo a disposizione. Lei rientra in quelle trattate a Siena….sono terapie molto costose e ci siamo divisi le tipologie fra Grosseto e Siena a seconda di quanto risulta dal Braf. Sono farmaci nuovi che funzionano molto bene.”

Il cuore si allarga in vaste onde di speranza: “mi sento seguita”, il dott. S. si sta occupando di me!

Il 24 Dicembre ripeterò l’ecografia addominale, grazie al buon intervento di una bionda infermiera della radiologia di Orbetello che, senza avermi mai né vista né conosciuta, prende a cuore il mio caso e fa i salti mortali per procurarmi l’appuntamento prima di Natale, il 31 dicembre il dott. S. mi telefona per dirmi che mi ha fissato la visita oncologica per il 2 Gennaio, mentre l’8 Gennaio, dopo aver parlato del mio caso, hanno deciso di comune accordo con il primario di oncologia di Grosseto, a cui ha raccontato il mio caso, di sottopormi alla PET, un esame con un isotopo radioattivo, la cui attrezzatura è di recente entrata nella disponibilità dell’ospedale di Grosseto. Sono seguita.

È di quei giorni il seguente scambio epistolare con Carla, la mia amica regista del Laboratorio teatrale di Velletri, che ben esprime il mio altalenante stato d’animo e le mie perplessità sul futuro.

“Cara Carla,

sono di nuovo in Toscana sempre alle prese con il mio melanoma.

Stamani l’alba a Velletri era lucente e speranzosa come la tua bella “letterina” di Natale, stasera la laguna di Orbetello era rosata e sognante, immota e distante dagli umani affanni. Li ho amati tutti e due questi momenti di bellezza che mi hanno fatto sentire ricca e fortunata perché ho potuto ammirarli. .

Chiaramente domani non sarò a laboratorio teatrale, devo prendere delle decisioni e devo meditare: staccarmi dall’Istituto che non mi fa sentire seguita e mettermi in cura qua??…non so, devo riflettere….”

“Cara Alba,

non so quali decisioni tu debba prendere (a parte la scelta tra Istituto di Roma e Orbetello) ma spero che non sia niente che ti porti lontano da qui. Al di là degli acciacchi più o meno seri so che per alcuni di noi ( e tu sei tra quelli) la vita e il teatro sono indissolubilmente legati. Il teatro è la nostra droga e non esiste terapia sostitutiva. E considera che durante queste vacanze dobbiamo metterci a caccia di idee e……”

“Cara Carla,

è vero, la vita ed il teatro sono intrecciati per questo ho bisogno di essere tenuta stretta dall’impegno teatrale per non lasciarmi andare…poi mi guardo e vedendo lo sfacelo che lo specchio mi rimbalza mi dico: “….dove vorresti andare tu vecchia rincartapecorita????…giusto andare a riporti!!!

A Orbetello ho avuto una visita di un dermatologo della LILT (Lega Italiana Lotta ai Tumori) che mi esorterebbe ad operarmi per esaminare il linfonodo sentinella, cosa che avrebbe voluto fare anche un medico oncologo dell’Istituto, contraddetto, però dalla chirurga plastica che preferisce andare avanti solo con ripetute ecografie. Oppure, sempre il dermatologo, mi suggerisce di fare una terapia mirata e non l’interferone che aggredisce tutto l’organismo, come invece ventilato dai medici dell’Istituto, dimenticando che ho un bel substrato di recidive pancreatiche che mi avevano già programmato per una poco gloriosa fine dovuta alle mie “frattaglie”, animelle e fegatelli vari!!! Adesso è arrivata la concorrenza…e che concorrenza! Signori e signore stavolta si alza l’asticella…oplà sempre più difficile! La vita si diverte e continua a divertirsi. Vorrei riuscire a sorriderne fino in fondo, sapendo che è stato tutto un gioco delle parti.”

“Cara Carla,

sembra che non sia stata io a prendere una decisione, ma l’abbiano presa i medici per me.

Dal 18 Dicembre, giorno del mio primo contatto, si sono attivati, mi hanno già predisposto una serie di appuntamenti, rispondono alle mie telefonate ed alle mail, sembra che, come si suol dire, “abbiano preso a cuore” il mio caso o forse, più realisticamente, che seguano una prassi più “umanizzata”, facilitati in questo dal minor numero di pazienti rispetto alle migliaia che transitano per l’Istituto di Roma. Sono stupita, confortata, un po’ disorientata, un po’ perplessa e comunque conscia che si tratta di una patologia imprevedibile, bizzarra (termine usato da loro) ed abbastanza infida, da tenere sotto controllo e guardare a vista……

In quei giorni mi capitò di leggere questa vignetta di Snoopy: “Il mio proposito per l’anno nuovo? Uscirne vivo!” Mi fece sorridere e pensare che tutto sommato è l’augurio più preciso ed essenziale che ogni anno possiamo farci, visto le assenze che ogni anno vecchio lascia dietro di sé.”

Come auspicato da Snoopy, uscii viva dal 2013 e anche dagli anni successivi.

Il dott. S. con la sua attenzione mi ha salvato la vita, un inestimabile dono a cui hanno partecipato altri dottori che mi hanno regalato la loro intensa partecipazione, il loro supporto umano, la loro professionalità.

Come il dott. C., un giovane oncologo di Grosseto, che mi prese in cura inizialmente per poi introdurmi a Siena dove il mio caso era di competenza e che mi spronò energicamente affinché non rinunciassi alle terapie per quanto pesanti potessero essere, affinché non mi lasciassi andare, affinché non mi arrendessi senza aver lottato.

“Sarà sempre in tempo a rinunciare, ma non è giusto che lei non voglia nemmeno tentare. Non è giusto, lei sta ancora bene, non deve rinunciare!” mi esortava con passione contrapponendosi alla mia scelta di rassegnarmi alla malattia dopo aver letto, su un fascicolo che mio marito aveva scaricato da internet, i terribili effetti collaterali che queste nuove terapie potevano provocare.

“Ogni reazione è individuale. Non deve rifiutare a priori…sarà sempre in tempo a dire “no, sto troppo male, sospendo la terapia”.

“Non voglio creare problemi alla famiglia….voglio andarmene decorosamente….” come decorosamente cercavo di non far sgorgare le lacrime che non volute mi allargavano gli occhi, mentre mi sforzavo di motivargli perché preferissi non allungare i tempi coinvolgendo i familiari in inutili, prolungate terapie.

“Ma potrà interrompere, rifiutare la terapia in qualunque momento, intanto provi…tanto sarà sempre lei a decidere!” mi parlava con convinzione, con trasporto. Mi diceva cose sensate che vinsero la mia resistenza.

Nel salutarlo lo ringraziai per la sua determinazione, per la foga con cui mi aveva stimolata a prendere la decisione giusta.

“È il nostro lavoro! Noi ce la mettiamo tutta ma anche voi dovete mettercela tutta!”

“D’accordo dottore, mi affido a lei. Farò quello che mi dice di fare. Proviamo.”

Il dott. C. si mise in contatto con il reparto d’immunoterapia oncologica di Siena e con la dottoressa che da quel momento sarà la mia referente e diventerà il mio nume tutelare, protettivo e attento. Verrò inserita in un protocollo sperimentale nell’intento di prolungarmi la vita, che in quel momento sembrava non avere una lunga aspettativa.

Nella primavera del 2014, dopo qualche lungaggine dovuta ad ulteriori accertamenti, mentre la malattia si evidenziava anche con l’ingrossamento di un linfonodo all’inguine sinistro, la perdita di peso e il colore della mia pelle assumeva il grigiume opaco dei malati di tumore, iniziai il mio percorso con un ciclo di tre chemioterapie per poi poter accedere, secondo protocollo, alla terapia immunologica sperimentale.

Mi assisteva mia figlia Samanta: la mattina mi accompagnava al reparto di Immunoterapia, mi aspettava per ore e poi mi portava a casa sua nei dintorni di Siena dove, abbattuta sul letto, sprofondavo in lunghi sonni cattivi, duri, cupi, senza sogni. Samanta o Alessandro, suo marito, venivano di tanto in tanto a spiare se ero ancora viva, ma prima di sera non riuscivo a riemergere da quel pozzo di ferro che mi serrava e non mi permetteva di aprire gli occhi, sigillati e pigiati dentro le orbite. A sera mi veniva fame. Mi alzavo giusto per mangiare qualcosa e poi risprofondavo nel pozzo di ferro, sempre sotto il preoccupato controllo di Samanta.

A Giugno del ’14 riuscii, fra una chemio ed un’immunoterapia, a fare le prove e rappresentare “Varietà Varietà”, una commedia già messa in scena nel 2000, anno in cui per la prima volta mi ero cimentata a dare qualche idea, a scrivere qualche battuta ma che comunque apparteneva tutta a Carla. In questa nuova edizione ampliata e rivisitata, invece, il testo portava la firma di tutt’e due e il ruolo di Ersilia, la sgangherata capocomica di un’altrettanto sgangherata compagnia, era sempre interpretato da me.

Riuscii a compiere l’impresa, circondata dall’affetto di tutti i miei compagni di laboratorio e accompagnata, mentre esplodeva la festosa musica del finale ed il carosello degli attori che salutavano festosamente il pubblico, da un incoercibile pianto di Samanta, dilaniata dalla gioia di vedermi ancora così viva e vitale e la consapevolezza che, forse, fra poche mesi sarei potuta non esserci più.

Era un sconsolato pianto di amore e di paura: un dono inestimabile di attaccamento filiale.

Nel Dicembre del 2014, dopo tre mesi abbondanti dalla fine del ciclo di Ipilimumab, andai all’Ospedale di Grosseto a ritirare la Tac di controllo. Non l’aprii finché non tornai seduta in macchina accanto ad Alfredo, poi comincia a leggere il referto a voce alta, voce che diventava sempre più incerta e sommessa via via che le parole si allacciavano l’una all’altra.

Alfredo me la tolse di mano e la lesse di nuovo in silenzio, mentre io fissavo il vuoto, attraverso il parabrezza della macchina. Mi restituì il referto e mise in moto, avviandosi lentamente lungo il viale dell’ospedale, verso casa.

Il silenzio era così pesante che mi faceva scoppiare le orecchie.

“Malattia in progressione.” Questa era la diagnosi finale, dopo che erano stati evidenziati e descritti i vari noduli aumentati ed ingrossati.

Io continuavo a sgualcire e sbirciare il foglio che avevo appoggiato sulle ginocchia mezzo ripiegato, incredula di tutta quella esplosione di noduli che non corrispondevano a quelli fino a quel momento segnalatami.

Mi batteva flebilmente in testa questo pensiero: “…ma questi non sembrano i miei noduli!!!”…eppure così c’era scritto! “….ma questi non sembrano i miei noduli!!!” continuava a martellarmi in testa, sconsolatamente!…eppure la descrizione era dettagliata e precisa.

Eravamo sull’Aurelia, quasi alla prima uscita per l’Alberese, sprofondati in un silenzio di pietra che non volevamo scalfire nemmeno con il respiro. Meccanicamente ripresi in mano il foglio, lo dispiegai tutto per frugare fra le lettere, per trovare un appiglio fra le righe, per convincermi che ormai non c’èra proprio più speranza…ed esplosi in un grido:

“Ma questa non sono io…questa non sono io!!!… I.L. (iniziali del paziente a cui apparteneva il referto) non sono io, non è il mio referto!…hanno sbagliato all’ospedale!!!”

Pesante imprecazione sorda di Alfredo e cicaleccio festoso da parte mia: inversione di marcia e ritorno precipitoso allo sportello Consegna Referti dell’Ospedale di Grosseto.

“Eh, può capitare…sa, quando imbustano i referti!…”

“Sì, ma il mio adesso dov’è?”

Ricerca affannosa della busta di I.L.

“Non c’è, l’avrà già ritirata.”

“Ed io che faccio?”

“Vada in radiologia a farsi fare una copia del referto.”

Vado in radiologia.

“Impossibile, non c’è la dottoressa per firmarlo…neanche nel pomeriggio!”

“Ed io che faccio?”

“Mah…se vuole andare su alla Tac!?…”

Sì, voglio andare su alla Tac, maledetti voi e le vostre incompetenze!

Penso al povero I.L., che forse sta leggendo il mio referto…in meglio, in peggio…mah!

Su, alla Tac, la fortuna mi aiuta. Sto cercando di esporre il mio problema al primo camice bianco che intercetto mentre sta per entrare in reparto, quando sopraggiunge un altro signore senza camice. Il primo a cui mi ero rivolta non è del reparto e comincia a spiegare quello che stavo dicendogli al nuovo arrivato, che risulta essere il vice primario, seppure non in servizio in quel momento.

Cortesemente il vice primario mi fa accomodare in una stanza con i computer e comincia a cercare il mio dischetto, assicurandomi che l’avremmo letto insieme, subito.

Incontra dei problemi ad aprirlo che, mi spiega, avrebbero potuto giustificare tutte le traversie accadute in seguito al mio referto, ma evidentemente non ne è molto convinto perché poco dopo, quando entra casualmente il primario, non manca di segnalargli l’accaduto, naturalmente non specificando il nome della dottoressa, colpevole di tanta confusione.

“Poteva andare meglio, ma poteva anche andare peggio!” sentenzia il vice primario dopo aver visionato e confrontato il dischetto con quelli precedenti.

Reduce dall’aver sfiorato l’infarto con il referto di I.L., mi contento, eccome se mi contento! Ritrovo i miei noduli, i miei posizionamenti, la mia famiglia di metastasi e mi sentii tranquillizzata: ecco, questo sì che è il mio referto, ora sì che mi sento a casa!

Qualcosa era migliorato, qualcosa era leggermente peggiorato, ma nel complesso “se po’ fa’”, come dicono a Roma. Si poteva passare un Natale relativamente sereno e continuare a guardare avanti. Continuare a resistere, almeno fino alla prossima Tac.

Mi sarei sottoposta alla Tac successiva a inizio Primavera e così annotai i mio stato d’animo di quel momento:

“Oggi, martedì 24 Marzo 2015, è il giorno in cui andrò a ritirare il referto della nuova Tac di controllo e saprò, dopo sei mesi di assenza di terapia, quale evoluzione avrà deciso di avere il mio melanoma.

Mi sveglio tranquilla e comincio le solite incombenze mattutine.

Pipì al bagno poi, ancora in pigiama e vestaglia, infilo giaccone pesante e cappellino rosso da “vù cumprà”, quindi apro la cucina per raccattare il mio vecchio Juanito rattrappito nella sua cuccia, mentre gli altri tre si spingono per uscire abbaiando con quanto fiato hanno in gola, saltandomi addosso per esprimere la loro felicità mattutina e la loro fretta di scappare in giardino.

Fingo di non sapere che ho un macigno in mezzo al petto per quel referto che andrò a ritirare all’ospedale di Grosseto. Non voglio sentire quel pungolo acuminato che mi stuzzica ogni volta che mi riaffiora il ricordo della Tac, fatta una settimana prima, quell’insistere sull’indagare fra cervello e torace, quel farmi porre per due volte le braccia in posizioni mai assunte in tutte le Tac precedenti. Non voglio accettare che ho paura di afflosciarmi come uno straccio, quando avrò in mano il referto, esalando tutta l’energia, la durezza ed il coraggio, tutti i pilastri, cioè, su cui mi appoggio e a cui mi aggrappo per combattere le mie battaglie, e ritrovarmi invece abbandonata ad un riposante vuoto d’indifferenza e rassegnazione. Fingo di essere come sempre, ma mi sento ondulare.

I passi per raggiungere lo sportello dove si ritirano i referti sono pesanti e svogliati, ma devo compierli. Non so ancora se aprirò il referto, magari sedendomi prima da qualche parte o lo consegnerò chiuso ad Alfredo, che mi sta aspettando in macchina. Adocchio eventuali sostegni vicino all’ufficio a cui eventualmente appoggiarmi, poi mi metto in fila.

L’impiegata è cordiale e cortese, mi consegna il referto con un sorriso. Esco tenendolo in mano, incerta. Cerco un contatto con quello che contiene. Mi guardo intorno: c’è un gruppetto di persone poco distante che parla animatamente, probabilmente addetti ai lavori, ci sono altri invece che camminano in fretta, diretti ai vari uffici o ambulatori.

Decido di non sedermi e d’incamminarmi lentamente verso la macchina. Apro la copertina del cartoncino, appaiono i dischetti infilati nella tasca anteriore della confezione e in quella dietro c’è il referto scritto. Lo prendo in mano ed ho la percezione che sia innocuo, che non mi ferirà. È piegato in quattro, è leggero. Quando lo dispiego non c’è scritto molto. Via via che leggo sento del bagnato intorno agli occhi e la voglia di piangere tante lacrime quanto immense sono le cascate del Niagara, no meglio del lago Vittoria, le più grandi del mondo.

Arrivo alla macchina, pochi singhiozzi secchi e aspri insieme a qualche faticosa lacrima (il nulla rispetto alle agognate cascate Vittoria) scioglieranno la tensione, una volta seduta accanto a mio marito.

“Ma è andata bene?” mi dice Alfredo, contento dopo aver letto il referto che parla di “malattia stazionaria”.

“Sì, è andata bene! È quanto di meglio potessimo aspettarci!”

Però la mia guerra continua ed io non posso mollare: devo continuare a lottare e dimenticare di essere stanca.”

“2013…E POI!” prosegue con Il limbo