Il limbo

Per circa per due anni, dopo la fine del ciclo di Ipilimumab non mi fu più somministrata alcuna terapia, ma fui solo tenuta sotto controllo, con Tac ogni tre mesi e relative visite, che confermavano la stazionarietà del quadro clinico. In quei due anni ho visto crescere i mie nipotini, ho fatto ancora due spettacoli, ho scritto, senza parteciparvi come interprete, “Maghisse”, un testo impegnativo e stimolante, che mi ha divertito molto scrivere e ho passato alterni stati d’animo e alterni stati di salute ed energia, tutti tesi a guadagnare tempo, a rubacchiare giorni di vita al mostro incombente che me li voleva cancellare.

Mio marito ed io ormai vivevamo e viviamo stabilmente all’Argentario per seguire, sia lui che io, un’affollata agenda di appuntamenti per visite, controlli, accertamenti, interventi!….Alfredo ha messo dopo la sinistra, la protesi all’anca destra, e si è operato di cataratte a tutt’e due gli occhi; io, invece, mi sono operata solo all’occhio sinistro, dopo che anni fa mi avevano messo la lente sbagliata al destro, così che adesso ho un occhio che vede bene da lontano ed uno che vede bene da vicino senza, per fortuna, che questa asimmetria mi rechi disagio. In quella specie di bolla senza tempo futuro né passato, galleggiavano le giornate e si scioglievano le notti. Scivolava via la vita.

Ero nel limbo: non ero guarita e non ero ammalata, ero sospesa in attesa di una recrudescenza o di una guarigione. Non facevo terapie ma solo controlli, botte di radiazioni ogni tre mesi per confermare la quiescenza del melanoma ma danneggiando l’organismo con altri mezzi.

Abulia, svogliatezza, mancanza di fervore e depressione strisciante, unite a periodi di malessere e malattia. La sensazione dell’inutilità di tutto forse procurata dalla crescente mancanza di energia e convinzione, non mi sentivo vivere bensì sopravvivere e me ne vergognavo.

Mi vergognavo di non apprezzare più ogni giornata come un dono, di non riconoscerne l’unicità, di non provare la giusta gratitudine per il tempo in più che mi era concesso. Cos’era quell’urlo muto ma lacerante che mi sconquassava il petto quando ero sul confine del sonno e mi risvegliava di soprassalto, lasciandomi tremante ed affannata, dolorante e sgomenta, immobile e disorientata mentre il “Mamma aiutami!” si affievoliva nello stomaco, m’intorpidiva le spalle e mi sospendeva il respiro?

A tratti rimpiangevo i tempi delle terapie, quando lottavo fattivamente per la mia vita, circondata dal calore e dall’energia della famiglia e delle altre persone che mi vogliono bene, dalle cure attente e dalla professionalità delle dottoresse e delle infermiere e infermieri del reparto d’immunoterapia che mi facevano sentire assistita, protetta e motivata durante la rassicurante e ripetitiva routine di somministrazione del farmaco.

“2013…E POI!” prosegue con Il ritorno